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Industry Insiders: Alessandro Biasi, direttore creativo di A-lab Milano. Essere indipendenti nell'era digitale.

Launchmetrics Content Team

In un settore in continua evoluzione, che cerca di adattarsi ai cambiamenti epocali che stanno coinvolgendo tutti i comparti industriali, essere giovani ed indipendenti può rappresentare una sfida ma è anche una grande risorsa per provare a sconvolgere le regole del sistema con un approccio alternativo. Ne parliamo con Alessandro Biasi, direttore creativo di A-lab Milano, per la nostra rubrica Industry Insiders.

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Prima di tutto, raccontaci come è nato il progetto A-lab Milano.

Il marchio è nato dal mio progetto di laurea, come atelier contemporaneo, un laboratorio di idee in cui diverse persone cooperavano, seguendo ognuna una specifica fase del processo creativo che porta alla nascita di una collezione. A, per il mio coordinamento, lab per l'amore per il “saper fare” e la sperimentazione e Milano per la forza di questa città e del Made in Italy. Con il passare del tempo le cose sono cambiate, il lavoro è diventato sempre più veloce ma di quel collettivo sono rimasti lo spirito da workshop, il dialogo e la discussione con il mio team e un grande amore per la manualità e la ricerca.

Un brand giovane non può non confrontarsi con quelle che sono le nuove voci che influenzano l’industria della moda oggi, a partire dagli influencer. Qual è la vostra strategia in questo ambito?

Anche in questo momento in cui la presenza sui social e la collaborazione con blogger e influencer appare fondamentale, la strategia di A-lab Milano, compatibilmente con le possibilità riservate ad un marchio indipendente, è legata alla qualità e non alla quantità. Non ho mai avuto fame di presenzialismo ed è fin troppo facile e frequente cadere in dinamiche che sul lungo periodo fanno più male che bene all'immagine dei marchi. Per questo cerco di collaborare soltanto con persone che rispecchino l'universo di A-lab Milano e la sua estetica.

L’ascesa dei social media ha permesso anche ai brand di diffondere la propria visione senza filtri.  Quali sono i social network che hai scelto per A-lab Milano e come li utilizzi?

Da sempre mi sono sentito attratto dai social network e ho voluto che A-lab Milano fosse presente su tutte le principali piattaforme. Con il passare del tempo, però, abbiamo deciso di focalizzare le nostre energie su quella che si è rivelata la più adatta per arrivare al nostro target e attraverso cui la comunicazione stava diventando più diretta e immediata. Ad oggi ritengo Instagram il mezzo che meglio può raccontare le dinamiche del nostro settore. È diventato, quindi, una sorta di diario che raccoglie ciò che il marchio vuole trasmettere ma anche la lettura che gli utenti finali danno di esso. La moda è da sempre legata all'immagine e alla fotografia e su Instagram ogni utente può creare il proprio immaginario attraverso fotografie, colori e senso della composizione, seguendo o contrapponendosi ai trend del momento.

L’essere presente sui social comporta anche il confronto diretto con i consumatori che possono far sentire la propria voce. Come vivi questo scambio bidirezionale?

Questo confronto diretto con il consumatore è ciò che caratterizza le dinamiche di comunicazione oggi ed è proprio ciò che ci ha spinti a selezionare questo social network. Nonostante quella di A-lab Milano sia una realtà ancora piccola, è sempre interessante scoprire ed entrare in contatto con chi acquista le mie collezioni o semplicemente le apprezza. Tutto questo ha certamente un'altra faccia se si considera la grande presenza online di haters e opinionisti improvvisati ma fortunatamente non ho avuto per ora esperienze dirette in merito.

Naturalmente non si può prescindere, però, dai media “tradizionali”, dalla carta stampata ai siti web. Che valore credi abbiano per un brand nato nell’era digitale?

Credo che la presenza online sia fondamentale in un periodo storico come il nostro in cui qualsiasi ricerca inizia digitando una parola su Google. Ma concedendomi un po' di romanticismo, devo ammettere che il mio amore per tutto ciò che è cartaceo e materico resta grande. Un'immagine pubblicata su un magazine mi dà ancora la sensazione di qualcosa di concreto, che rimane nel tempo, come una foto che ci ritrae da bambini, da ritrovare per caso una volta cresciuti.

Oltre a discutere dell’importanza dei media “tradizionali”, da alcune stagioni si parla molto anche del reale valore di alcuni format istituzionali del settore come le fashion week e le sfilate. Dal vostro punto di vista hanno ancora senso?

La sfilata resta il sogno di tutti noi “giovani” designer, come traguardo e insieme inizio di un percorso. La domanda quindi, secondo me, non è SE questa forma di comunicazione abbia ancora un valore, ma QUANDO (e COME) presentarla. Grandi nomi hanno stabilito e proposto calendari propri e proprie modalità, pensiamo a Proenza che sfila con il suo pret-a-porter in momenti dell'anno dedicati alla couture o all'uomo, Wang che presenterà la sua main collection nel periodo dedicato alle pre, o Tom Ford – ma sarebbero molti altri gli esempi – che sfila in città sempre diverse. Quindi forse sono proprio le fashion week e i calendari che andrebbero rivisti, secondo ritmi nuovi e probabilmente meno frenetici. È innegabile che per le piccole realtà 4 collezioni all'anno siano difficili da presentare e pare che si assista in generale ad una auspicabile riduzione della proposta che torni a presenziare sul mercato per tempi più lunghi, per dare più spazio alla creatività e favorire anche distributori e rivenditori.

La rivoluzione digitale si è inserita anche nella vita quotidiana delle aziende, a partire dalla catena distributiva. Ci sono dei processi che avete digitalizzato e quali vantaggi credi apporti questa integrazione?

La digitalizzazione è espressione del nostro presente ma il nostro lavoro è ancora fortemente legato alla manualità. Certamente cartamodelli e dati tecnici vengono informatizzati e tutta la filiera commerciale, dalla vendita in showroom al cliente finale, passa attraverso il multimediale. Devo però dire che la componente digitale a cui personalmente sono più legato è la stampa che contraddistingue da sempre il mio lavoro e la ricerca di A-lab Milano. Da alcuni anni quello di Tecniche di Stampa Digitale è anche il corso che tengo in NABA. Attraverso di esso provo a trasmettere ai miei studenti che il digitale non deve essere un sostituto della creatività ma un suo prezioso alleato.

Secondo lo State of Fashion 2018 di The Business of Fashion, a causa del bisogno costante di novità nel settore, un numero crescente di aziende consolidate tenterà di emulare quelle che sono le qualità delle start-up. Quali sono, invece, i progetti futuri di un brand come A-lab Milano?

Sicuramente le grandi aziende stanno cercando di proporre prodotti sempre nuovi e alternativi anche se la mia sensazione è che tutti gli attori che fanno da tramite tra noi designer e i clienti finali continuino a spingere per una riproduzione delle dinamiche dei grandi gruppi, in tema di anticipo e ampiezza delle collezione e competitività dei prezzi, tutto ciò a discapito della creatività e dell'identità. Anche per questo uno dei progetti su cui sto lavorando è il lancio di un temporary shop online per proporre una selezione di capi disponibili per un limitato periodo di tempo, soggetti ad un frequente turnover e in numero ridotto, per offrire un prodotto esclusivo e sempre differente.

E il futuro dell’industria della moda?

L'industria della moda è in un momento di grandi cambiamenti, una fase di ricerca di nuovi equilibri e nuove strategie. Molte di quelle che erano considerate certezze sia a livello commerciale che creativo sono state messe in discussione. È cambiato il consumatore e il suo approccio alla moda, è cambiato il modo di comunicarla e sta cambiando il modo di presentarla. Non saprei dire quale sarà il futuro della moda ma voglio augurarmi che ci sia un ritorno ad una moda meno omologata, fatta di idee, creatività e soprattutto identità stilistica. Quella moda fatta anche di sogni e immaginazione.

 

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